E poi, all’improvviso, era sparito tutto.
La primavera, i colori, il senso delle cose, tutto
inesorabilmente dissolto.
Come in un assurdo, incontrollato giro di giostra, i
destrieri su cui viaggiava la mia vita se n’erano fuggiti via lasciandomi solo,
a sapere che non sarei mai più stato bambino.
Mai più un sorriso, un abbraccio, mai più un ricordo
da appendere alle pareti dei giorni nuovi, mai più te.
Mi lasciavi senza avviso, senza fiato, senza scelta.
Esisteva qualcosa d’impudico nel tuo non esserci,
qualcosa di profondamente ingiusto nella consapevolezza che sarei diventato adulto senza mai smettere di cercare i tuoi occhi tra migliaia di occhi e che
migliaia di volte mi sarei sbagliato, per poi ricominciare tutto daccapo,
inesausto ma eternamente sconfitto.
Quindici anni, o quindici giorni, o quindici secondi…Dio
lo sa quant’è passato da allora, ma non serve certo scomodare alcun Dio per fare
il conto di ciò che resta.
Il tuo sorriso. Incastonato in un tempo che non ci
appartiene.
E le tue mani, che di notte m’accarezzano i sogni.
E poi c’è ancora qualcosa, c’è ancora da chiedersi cosa
faremmo.
Cosa faremmo, Amore mio, se potessimo tornare
indietro, esserci di nuovo, sapere quand’è stata l’ultima volta che ci siamo
guardati negli occhi ed abbiamo pensato che sarebbe bastato poco altro.
E cosa farei io, se scoprissi che la ragione per cui
non posso smettere di vivere di te, è che tu sei stata per me l’ultima conta a
nascondino, l’ultima buca scavata nella sabbia, l’ultima campana disegnata col
gesso nel cortile sotto casa.
Cosa faccio, AmorE, adesso che ogni giorno si fa più
insidioso il sospetto che sia stato il tuo addio, il boia assassino della mia innocenza.
Dammelo tu il coraggio.
Lasciami credere ancora una volta in quella favola.
Rendimi quel tanto d’eternità che basterebbe a non
piangerti più. Dammi la forza di montare ancora una volta il cavallo bianco dell’ultimo
sogno, dell’ultimo gioco,
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